Quando 'Christiane F., Noi i ragazzi dello zoo di Berlino' è uscito, ero troppo piccola per leggerlo autonomamente. Mi spiego meglio: il libro non c'era in casa, non potevo, per una mia curiosità, per volontà, 'raggiungerlo' come è stato per altri libri che non facevano parte della mia personale biblioteca. Magari non mi avrebbe neanche suscitato interesse a quell'età.
Neanche qualche anno più tardi, devo ammetterlo, neanche quando la droga è diventata una presenza reale ai vari livelli di lontananza o vicinanza nella vita di tutti, neanche e soprattutto quando tutti lo leggevano: non ho mai sopportato di fare una cosa, di leggere un libro, perché 'si deve fare', perché gli altri lo facevano.
Meno male che, nonostante il clamore e la violenta, e forse anche poco accorta, educazione alla non-droga di quegli anni, nessuno mi ha obbligato a leggerlo, lo avrei odiato.
Ma, d'altra parte, non è mai finito, finché sono stata a scuola, anche se a pezzi, in una di quelle antologie mai usate in classe ma tanto, da me, utilizzate fra un altro libro di testo e un altro ancora.
Lo stesso dicasi per il film, anche se poi, fino all'avvento dei riproduttori casalinghi, non c'è stata occasione di metterci lo sguardo sopra. Il televisione non l'ho mai incontrato.
Al fascino della locandina, del volto rassegnato, deciso, triste, dolcissimo, di Natja Brunkhorst, e, non posso negarlo, di David Bowie, presenza 'reale' nel mondo 'd'illusone' del cinema (e qui ci starebbe bene un'analisi approfondita di quest'idea, che può sembrare assurda e paradossale, ma che in fondo non lo è, e invita, piuttosto ad osservare, a capire, quel che ha un significato e in che misura, per chi ha un'età diversa -in generale- da noi), sono sempre stata un po' sensibile.
E pure a quell'atmosfera da 'proibito', compensata e sminuita, però, dall'effetto 'moda'.
Finalmente, a mente libera, alcuni anni fa (parecchi da adesso, facendo due conti!), il libro l'ho comprato e l'ho letto.
E me ne sono innamorata alla follia.
Non credo gli adulti dell'epoca lo abbiano fatto.
Troppo coinvolti, forse, troppo impreparati a una realtà che non è mai stata, a differenza di quella della mia generazione, di poco discosta da quella di Christiane, la loro.
Non così 'sfacciatamente' almeno.
Me ne sono innamorata, dicevo, ha un posto 'speciale' nel cuore e nello scaffale dei libri 'speciali'.
Probabilmente perché l'ho letto quando ero in grado di capirlo, di immedesimarmi, pur standone al di fuori, perché la memoria di fatti e persone ha giocato il suo ruolo, perché i miei sentimenti si sono mischiati a quelli di Christiane.
Ed è appunto 'sentimenti' la parola chiave, il motivo, l'argomento di 'Noi i ragazzi dello zoo di Berlino'.
E' si, un libro che denuncia uno stato di fatto, ma è soprattutto un libro che parla d'amore e di sentimenti.
Ed è questo, quello di cui non si sono resi conto, non sono riusciti a fare, tutti colori con i quali ne ho parlato, entrando casualmente in argomento, che mi hanno detto di averlo letto all'epoca, all'età di Christiane nel racconto, e il cui commento è stato che ne erano rimasti sconvolti.
Si, certo, è sconvolgente scoprire che dei ragazzini facciano tutto quello, ma ha molto più significato fermarsi a capire perché lo fanno.
E il libro lo dice.
Ma forse la generazione adulta dell'epoca non ha ritenuto opportuno proporre una soluzione diversa ai problemi alla base di certi comportamenti, magari semplicemente non è stata in grado di farlo, e accusando il fenomeno non lo ha risolto, negando probabilmente, nel caso di questo libro, la possibilità di capirlo.
Si sarà detto di puntare sullo strazio per evitare l'imitazione, ma la conoscenza e la comprensione di un fenomeno sono armi migliori della proibizione, dell'impatto sull'impressione, per contrastarlo.
Il film, la visione, appunto, di questa realtà, che di 'immaginato' non ha nulla, come dicevo, all'epoca, per me e per gli altri, ha avuto lo stesso destino del libro, ma poi, quando l'ho comprato, in dvd, in un altro momento imprecisato posteriore al libro, e l'ho guardato una sera, in perfetta solitudine, mi ha dato le stesse sensazioni, le stesse emozioni del libro. Ho chiuso gli occhi solo quando l'ago buca la pelle: era troppo vicino. Al cuore, forse.
Comunque sia, ormai, per me, Christiane è Christiane (la chiamo Christiane F., quella de 'I ragazzi dello zoo di Berlino' solo per farmi capire, con gli altri), e da qualche mese in libreria c'è Christiane V. Felscherinow con Sonja Vukovic, 'Christiane F. La mia seconda vita'.
L'ho guardato e riguardato, in copertina c'è sempre la Natja Brunkhorst della locandina del film, e, vincendo la paura di un 'seguito' l'ho comprato.
Beh, non lo è, un 'seguito', anche se, si, Christiane racconta, fa sapere, ci mette a conoscenza, della sua vita dal film in poi.
Come lei stessa dichiara non ha avuto una vita facile, non la ha adesso. Errori, debolezze, situazioni mal gestite, sono la causa di un vivere alla ricerca della tranquillità attraverso però un mezzo che ne dà solo l'illusione e provoca la distruzione di sè.
In questo secondo 'capitolo', la Christiane ragazzina (perché ognuno di noi è sampre la/il ragazzina/o che è stata/o) ha per involucro una donna adulta, cosciente e responsabile di sè e della sua dipendenza dalle droghe, una donna lucida, che non giustifica e non rinnega gli errori, ma che spiega, a sè e agli altri, i motivi, le cause.
Come ha fatto in precedenza, in effetti.
E come in precedenza, ci si rende conto che il passo che divide una situazione dall'altra è quello che è: un passo, appunto. E quanto, in tutto, giochino i sentimenti, provati e subiti, buoni e cattivi, propri e altrui.
L'età diversa, lo sguardo sul mondo, rendono questo racconto più 'leggero', ma il dramma è sempre lo stesso: quello di una persona che convive con la dipendenza ed è quindi costretta a vivere con se stessa e con gli altri in una certa maniera, a certe condizioni.
E' un dato di fatto, e lo sarà sempre, se non per se stesso, per le sue conseguenze, se non all'esterno, all'interno.
E Christiane lo sa, e lo accetta.
Si può andare avanti e migliorare, ma quel che è stato è stato, e c'è molta più maturità nell'accettarlo che nel lasciarselo alle spalle.
Auguri, Christiane.
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