Amelie Nothomb - Sete - Voland
Interpretare un personaggio è come incarnare lo spirito.
Entrambe le azioni necessitano di un corpo: letterario -in questo caso- nella prima, fisico nella seconda. Ed è grazie a questo corpo, che ci ritroviamo a sperimentare, volontariamente la prima situazione, involontariamente la seconda.
Dar vita ad un personaggio è diverso dall'interpretarlo.
E, regista di se stessa, Amelie Nothomb è riuscita nell'impresa più singolare di tutte: impersonare l'Incarnato.
Non lo racconta, lo fa parlare.
Nella notte fra il processo e la crocifissione, il Cristo inizia a riflettere su se stesso e su chi gli sta intorno, e questa riflessione lo accompagna nell'ascesa al Golgota, nella morte e oltre.
Tante sono le cose di cui parla: i genitori, le amicizie, l'amore, la vita.
Tutte cose di cui ha conoscenza perché provvisto di un corpo che gli permette di provare stimoli fisici.
L'incarnazione è il dono, allo spirito, di un corpo.
Da questo dato di fatto derivano tutta una serie di riflessioni serie ed importanti, a torto prese poco in considerazione in altre sedi e da altre persone.
Ma 'Sete' non è un trattato di filosofia: è un trattato di umanità, intesa, questa, soprattutto nella sua carnalità, nella sua dimensione fisica.
E un fisico, un corpo, ha le sue necessità.
E il bere è, insindacabilmente, la necessità essenziale, quella, la cui soddisfazione ci apre all'Eterno, all'Amore.
Piccola nota a margine: finalmente, la nuova traduttrice è riuscita a ridare a Amelie Nothomb la sua voce, il suo tono, in lingua italiana.
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