martedì 18 gennaio 2011

Una perla

Certe storie ti catturano dalla prima frase. E non è una questione di tecnica o di stile. E' che ti fanno percepire la sostanza complessa dei fatti, pur semplici, che le compongono, e accendono la tua fantasia sul loro sviluppo e la curiosità di conoscere quel che succederà.
'Quei giorni a Bucarest', di Stefan B. Rusu, edito dalla Playground, comincia con un brano di una recita scolastica, la trasposizione teatrale di un film di successo.
Sembra messo lì per spiazzarti, e invece capisci subito che è un pretesto per raccontare qualcos'altro.
Un qualcosa sostanzialmente diverso, eppure del tutto simile al recitato, dove l'amore, l'incomprensione, il contesto sociale, provocano reazioni di sana ribellione giovanile equivalenti.
Il protagonista è lo stesso: quel Gabriel che recita nella rappresentazione, e, in parte, nella vita.
Una perla dalla luce purissima, il cui incarnato torbido la fa splendere ancora di più.
Conscio o inconsapevole, è lui il motore delle azioni di tutti quelli che sono intorno a lui.
Di Nicu come di Ioana. Del regista della rappresentazione, del padre e del fratello, di Vittorio.
Una volta incrociato il suo sguardo, ma forse basta meno, è sufficiente la sua presenza ravvicinata, si diventa tutti come i pericolosi cani randagi di Bucarest: asserviti alla musica prodotta dalle sue labbra, al gesto della sua mano.
Pure se questo asservimento provoca reazioni violente da cui Gabriel sembra non potersi difendere.
L'amore dà coraggio, però, e Gabriel, che in varie forme ne è circondato, lo riflette, spingendo gli altri ad agire in funzione di questo.
Il lieto fine, pur se sul filo del rasoio, è assicurato, anche se il finale resta parzialmente aperto, lasciando intuire ma senza dare la conferma.
Una conferma di cui, forse, non c'è una stretta necessità, ma che si vorrebbe avere, per le nuove avventure che si intuisce potrebbero venir vissute da Gabriel e Nicu.

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