martedì 28 febbraio 2017

Coriandoli


Perla zoologica

Non ricordo i particolari, ma la frase mi è rimasta impressa: "Riempiti con carne di prosciutto."
(E sì che chi l'ha pronunciata avrebbe dovuto sapere di cosa stava parlando!)

sabato 25 febbraio 2017

CITAZIONE MUSICALE n°98

"Love is the devil counting teardrops in the rain..."
 
[H.I.M. - Love, the hardest way]
 
(Stupenda!)
 

CITAZIONE LETTERARIA n°98

"Amore è quando gli friggi la pancetta anche se sei vegetariano."
 
[Patricia Nell Warren - La corsa di Billy - Fazi Editore]
 
(Innegabilmente vero.)
 
 

Love is...

Sto leggendo 'Prince Lestat and the Realms of Altantis' [by Anne Rice for Chatto & Windus, London] e ancora una volta, pur se nel bel mezzo di una situazione complicata, mi ritrovo a pormi la medesima domanda: cosa ci trova Lestat in Louis?
Oh, certo a pagina 95 anche Louis, in termini, se vogliamo, più pratici, se la pone, questa domanda, e gli chiede '... perché vuoi me...'.
E a pagina 96 Lestat gli risponde, con successiva dovizia di particolari, che la risposta è nel fatto che '... tu eri lì proprio quando...'.
Già.
Ma basta questo?
O questo significa molto di più, per Lestat come per ognuno di noi?
'Io so quello di cui tu hai bisogno.', dice a pagina 97 Louis.
E a pagina 98 Lestat replica con un 'Abbi fiducia in me.'.
Riflettiamoci un attimo: è questo il senso dell'amore?
[Di quel che succederà fra i due ne parleremo fra 342 pagine.]
 
NB: la traduzione delle frasi citate è la mia.

'La corsa di Billy'

Leggere storie ambientate nel mondo dello sport non mi ha mai affascinato.
Leggere storie in cui, ad uno dei protagonisti principali, succede qualcosa di veramente brutto, neanche.
La somma dei due motivi mi ha sempre fatto evitare, anche se sapevo della sua importanza, questo libro.
Sto parlando di 'La corsa di Billy' di Patricia Nell Warren, recentemente pubblicato da Fazi Editore.
Nel pubblicizzare questo volume, il fattore principale del mio rifiuto a leggerlo non era messo particolarmente in evidenza, privilegiando invece quelli che ne determinano l'indiscussa importanza, quei fattori, cioè, che, nonostante si parlasse di sportivi, mi hanno convinta, a leggerlo, in preda ad una inspiegabile amnesia delle mie precedenti considerazioni.
Patricia Nell Warren è riuscita a farmi appassionare ad una storia che parla di sport, ma sono bastate poche pagine a farmi capire che quello era il libro che avevo sempre evitato.
E infatti l'ho dovuto leggere a singhiozzi, perché tutto di seguito non ce la facevo, perché non volevo arrivare ad un determinato punto. Ma non potevo non finirlo. E adesso voglio conoscere il seguito e il seguito del seguito.
'La corsa di Billy', rifiuti d'argomento personali a parte, è un libro che merita tutta la gloria che lo circonda.
Per la bellezza delle scene, siano esse tenere, ardimentose, sensuali, violente o tristi, che vengono raccontate con precisione, lucidità e tenerezza.
Per la forza e l'impegno di denunciare uno stato di fatto, la condizione delle persone omosessuali all'interno della società, anche se principalmente in un suo aspetto particolare cioè quello sportivo, che al giorno d'oggi non è ancora  sostanzialmente cambiato, nonostante i progressi innegabili e fondamentali che pure ci sono stati.
La storia è bella e dura, e, volenti o nolenti, coinvolge.
Il libro va letto, anche se ti si stringe il cuore.
E va fatto leggere.
Perché se anche uno solo cambia idea e si rende conto dell'errore che commetteva sarà già una vittoria.
 

sabato 18 febbraio 2017

Bla-bla-bla

La  gente ha bisogno di parlare.
Ha bisogno di qualcuno che l'ascolti.
Possibilmente gratis.
Ci sono due tipi di parlatori: quelli che amano parlare dei fatti propri e quelli che amano parlare dei fatti degli altri.
Preferisco i primi.
Perché sono in grado di manifestare loro una certa empatia e perché, veri o inventati che siano, parlano in prima persona.
Non che parlar d'altri sia sbagliato, se si parla, ma parlare solo degli altri per me lo è. E persone che fanno questo, anche e soprattutto per non parlar di sé, ce ne sono. Non hanno la mia simpatia.
Neanche quelli che parlano troppo ce l'hanno.
Perché è vero che so ascoltare,  e, dopotutto, mi piace farlo, ma oltre una certa misura mi stanco.
Soprattutto se quella con cui parlo è gente che non conosco.
Mi rendo conto che un paio d'orecchie disponibili sono rare da trovare, ma, proprio per questo, andrebbero gestite con cura. Cosa che il parlatore compulsivo non riesce quasi mai a fare.
La categoria che in assoluto detesto, è quella di chi, dopo essersi presentato, comincia a chiederti i fatti tuoi. Come se bastasse dirsi il nome per ritenersi intimi.
Qui non si tratta di compulsività, ma, di cercare, in base a principi del tutto inesistenti, una confidenza che non esiste, che non può esistere.
Due parole oggi, due parole domani, un silenzio e un saluto la terza volta, e via così, possono crearla, questa confidenza, ma non è un processo automatico: si avvia solo se ci sono quei presupposti di simpatia di cui ci si rende conto o no al primo incontro. E dalla capacità di saper stare in silenzio al momento opportuno. Capacità rara, ma allo stesso tempo determinante per sentirsi capiti, sia se si tratta di parlatori che di ascoltatori.
E difficilmente un parlatore compulsivo è un buon ascoltatore.
Non che non voglia ascoltarti: non ce la fa.
Poi ci sono quelli che parlano tanto e ascoltano tanto.
Con questi vado d'accordo, perché capiscono cos'è il silenzio.
Qualcuno ti chiede, in un modo o nell'altro il permesso di parlare, qualcun altro se lo prende.
Certe volte indossare gli auricolari aiuta, certe altre è inutile.
La gente ha bisogno di parlare: se non riesci a scappare devi ascoltarla.

martedì 14 febbraio 2017

Smile!

 
 
"Hey baby let me be your Valentine, St. Valentine...
Suck the sorrow out of you and try to keep the lie alive.
Like St. Valentine..."
 
[H.I.M. -  Like St. Valentine ]


sabato 11 febbraio 2017

In blu

D'inverno, al mare.
 





Di foto

Ne ho viste diverse, a 'Senza confini', di persone che fotografavano le foto.
O meglio: fotografavano le riproduzioni di esse preparate per questa esposizione.
Certo, qualche foto di una mostra ha senso farla, pure qualcuna di alcuni soggetti, come memoria di quel che ci ha colpito.
E, sì, forse ha senso pure farla bene, se si intende con questo una  buona, tecnicamente riuscita, rappresentazione del soggetto.
Il valore di una foto è nell'attimo di tempo e di spazio ripreso ed eternato.
Non esattamente lo stesso di quello di un quadro, pensato e formato nel tempo, per quanto breve esso possa essere, per un futuro.
E allora, riprodurre la riproduzione di quell'attimo, cosa significa, al di là dello studio e della memoria?
Certo, i cataloghi ufficiali non sono alla portata economica di tutti, ma, probabilmente, il problema non è questo, o, non solo questo.
Mi sembra di rilevare, nell'isolare i soggetti dal contesto, una certa voglia di poter dire: 'L'ho fatto anch'io!'.
Ma cosa? Non certo andare in quel luogo e riprendere quella scena!
Lo studio di un quadro passa anche per la sua riproduzione, certo, ma allora la foto va fatta, similarmente, ex novo. E come il quadro sarà una tua riproduzione, così anch'essa sarà una tua foto!
Quindi, a meno che non si stia preparando un catalogo, ufficiale o personale, non trovo giusto riprodurre quello che viene esposto alla stessa maniera di come se quella immagine la si stesse 'creando'.
Certo, la differenza è sottile e difficile da rilevare, e a chiunque dà fastidio, alla stampa, ritrovarsi spiacevoli intromissioni che l'occhio lì per lì non ha colto. E il digitale, per quanto aiuti, non fa tornare indietro il tempo di quell'attimo magico che, nonostante la staticità di una mostra - a meno che non si sia il fotografo del catalogo, ma quello è un caso diverso - non potrà più essere riprodotto.
Qual è dunque il senso di queste foto?
Perché, in teoria, si è là per vivere l'emozione che l'autore ha provato a trasmettere agli altri attraverso quelle esposte.
Anche un quadro lo si vive e lo si fotografa per riviverlo, ma, per quanto l'intenzione, nel riprodurre una foto d'autore, sia la stessa, il fatto di utilizzare, per far ciò, lo stesso mezzo utilizzato per creare l'originale, una qualche domanda deve pur suscitarla.
Non sto parlando di diritti d'autore e licenze di fare. Mi chiedo solo, al di là del valore di una riproduzione tecnicamente riuscita, qual possa essere il valore di queste opere decontestualizzate.
Ma magari il contesto in cui, chi le produce, inserisce questi lavori, esiste e, semplicemente, non lo vedo io perché non mi piace fotografare le foto altrui.

domenica 5 febbraio 2017

S. McCurry 'Senza confini'

 
La cosa che ti colpisce di più, nelle foto riprodotte nella mostra, è quanto siano vari e vividi i colori. Poi ci sono le espressioni dei soggetti ritratti.
Quindi ci sono le situazioni, le scene.
E c'è lo spazio, le immagini riflesse che prendono corpo più di quelle di cui sono immagine, e c'è la guerra, ma c'è pure la quotidianità di mondi in cui non ci rispecchiamo.
L'allestimento è curato, ma forse l'entità delle opere avrebbe avuto bisogno di un maggiore spazio per apprezzarle le stesse nella giusta luce e alla giusta distanza, indipendentemente, ma pure volendo tenerne conto,  dalla  quantità di visitatori.

giovedì 2 febbraio 2017

Quanto vale una foto?

"Cinque foto un euro" è scritto sul biglietto attaccato al coperchio, aperto, di una cassetta di legno, grezza, che imita un piccolo baule da viaggio con tanto di lucchetto.
Sul fondo c'è un corposo ammontare di foto in bianco e nero: vecchie, antiche, grandi, piccole, di gruppi, di singoli, ufficiali, private.
Accanto ai pennini, ai calamai, alle monete comuni e alle cartoline, non è raro trovare alcune foto: fanno parte di un piccolo commercio di cose più o meno vecchie, più o meno antiche, che si affianca ai vasetti, alle bomboniere, e a tutta una serie di altri oggetti di piccolo antiquariato.
Non spesso, ma alcune volte sì, mi sono fermata a guardare quei volti, quelle pose, quelle situazioni, quei 'ricordi'.
Alcune hanno l'indicazione del fotografo, altre no.
E mi sono sempre chiesta a chi possa interessare un tale articolo.
In modo serio, in modo da investirci, sia pure in cifre minime, dei soldi.
Sì, io le guardo, mi soffermo a pensare, a cercare, pur con la certezza di non trovarne, volti conosciuti. O belli.
Perché a me piacciono le storie, e lì ce ne sono tante, ma non me ne sono mai portata a casa una, e il motivo è semplice: non mi appartengono, e, a maggior ragione, non mi apparterrebbero se le comprassi.
Il che, però, non esclude che un giorno io possa fare un acquisto di questo genere, colpita da una particolare situazione, da un particolare volto.
Nel frattempo torno a domandarmi a chi possano davvero interessare le fotografie altrui, perché, è bene ricordarlo, stiamo parlando di scatti 'familiari', anche quando dietro l'obiettivo c'è un fotografo professionista.
Magari me lo chiedo perché io stessa ho un rapporto quantomeno ambiguo con le fotografie, non amando esserne il soggetto, ma cercando di immortalare quanto più possibile la realtà che mi circonda.
Non amo fotografare le persone, ma qualche volta lo faccio.
Mi piace guardare quelle di questi sconosciuti, ma, in certi momenti, mi imbarazza.
Nicolai Lilin, in 'spy story love story' [Einaudi] ad un certo punto fa raccontare ad uno sei suoi personaggi che guardare i vecchi album di famiglia "era uno dei passatempi sovietici più diffusi". Si invitavano amici e parenti per mostrare loro "il sacro libro della felicità". Era "un modo per sentirsi più uniti e condividere qualcosa di bello, per fare entrare gli altri nel cuore della tua famiglia".
Non lo facevano solo loro.
Del resto matrimoni e vacanze continuano a richiedere l'attenzione dei parenti e degli amici in visita, e gli album su facebook ad apparire nelle homes altrui senza alcuna richiesta specifica.
Però la partecipazione agli altri fa parte del valore delle foto, ed è un valore universale.
E allora mi chiedo se sia giusto, anche se si tratta di scatti lasciati al fotografo, ma sono convinta che non ci siano solo quelli, che quelle immagini della vita altrui vengano mercificate in maniera tanto libera.
E ancor più mi sconcerta la certezza di trovarne, nei tempi a venire, di a colori e, perché no?, in formato digitale, variopinti brandelli di esistenze di cui nessuno vuol più serbare il ricordo e qualcun altro vuole usare come merce curiosa ad uso di ancor più curiosi acquirenti.
E l'idea di poter voler distruggere, ad un certo punto, tutto questo che pure ci appartiene, si fa strada, seppur a fatica, perché magari qualcuno, sia pure un estraneo, potrebbe avere la capacità di prendere questo testimone fatto di immagini e trasportarlo, con un senso, con una ragione d'essere, nel futuro.