giovedì 2 febbraio 2017

Quanto vale una foto?

"Cinque foto un euro" è scritto sul biglietto attaccato al coperchio, aperto, di una cassetta di legno, grezza, che imita un piccolo baule da viaggio con tanto di lucchetto.
Sul fondo c'è un corposo ammontare di foto in bianco e nero: vecchie, antiche, grandi, piccole, di gruppi, di singoli, ufficiali, private.
Accanto ai pennini, ai calamai, alle monete comuni e alle cartoline, non è raro trovare alcune foto: fanno parte di un piccolo commercio di cose più o meno vecchie, più o meno antiche, che si affianca ai vasetti, alle bomboniere, e a tutta una serie di altri oggetti di piccolo antiquariato.
Non spesso, ma alcune volte sì, mi sono fermata a guardare quei volti, quelle pose, quelle situazioni, quei 'ricordi'.
Alcune hanno l'indicazione del fotografo, altre no.
E mi sono sempre chiesta a chi possa interessare un tale articolo.
In modo serio, in modo da investirci, sia pure in cifre minime, dei soldi.
Sì, io le guardo, mi soffermo a pensare, a cercare, pur con la certezza di non trovarne, volti conosciuti. O belli.
Perché a me piacciono le storie, e lì ce ne sono tante, ma non me ne sono mai portata a casa una, e il motivo è semplice: non mi appartengono, e, a maggior ragione, non mi apparterrebbero se le comprassi.
Il che, però, non esclude che un giorno io possa fare un acquisto di questo genere, colpita da una particolare situazione, da un particolare volto.
Nel frattempo torno a domandarmi a chi possano davvero interessare le fotografie altrui, perché, è bene ricordarlo, stiamo parlando di scatti 'familiari', anche quando dietro l'obiettivo c'è un fotografo professionista.
Magari me lo chiedo perché io stessa ho un rapporto quantomeno ambiguo con le fotografie, non amando esserne il soggetto, ma cercando di immortalare quanto più possibile la realtà che mi circonda.
Non amo fotografare le persone, ma qualche volta lo faccio.
Mi piace guardare quelle di questi sconosciuti, ma, in certi momenti, mi imbarazza.
Nicolai Lilin, in 'spy story love story' [Einaudi] ad un certo punto fa raccontare ad uno sei suoi personaggi che guardare i vecchi album di famiglia "era uno dei passatempi sovietici più diffusi". Si invitavano amici e parenti per mostrare loro "il sacro libro della felicità". Era "un modo per sentirsi più uniti e condividere qualcosa di bello, per fare entrare gli altri nel cuore della tua famiglia".
Non lo facevano solo loro.
Del resto matrimoni e vacanze continuano a richiedere l'attenzione dei parenti e degli amici in visita, e gli album su facebook ad apparire nelle homes altrui senza alcuna richiesta specifica.
Però la partecipazione agli altri fa parte del valore delle foto, ed è un valore universale.
E allora mi chiedo se sia giusto, anche se si tratta di scatti lasciati al fotografo, ma sono convinta che non ci siano solo quelli, che quelle immagini della vita altrui vengano mercificate in maniera tanto libera.
E ancor più mi sconcerta la certezza di trovarne, nei tempi a venire, di a colori e, perché no?, in formato digitale, variopinti brandelli di esistenze di cui nessuno vuol più serbare il ricordo e qualcun altro vuole usare come merce curiosa ad uso di ancor più curiosi acquirenti.
E l'idea di poter voler distruggere, ad un certo punto, tutto questo che pure ci appartiene, si fa strada, seppur a fatica, perché magari qualcuno, sia pure un estraneo, potrebbe avere la capacità di prendere questo testimone fatto di immagini e trasportarlo, con un senso, con una ragione d'essere, nel futuro.

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