martedì 9 febbraio 2010

JEANS

Il treno è affollato e i sedili frontali sono a distanza ravvicinata. Sembra un vecchio regionale utilizzato per il servizio metropolitano, e c'è un unico posto libero, vicino al finestrino, che nessuno, forse per la brevità del percorso, occupa.
Ti siedi.
Qualcuno alla tua destra, qualcuna, in obliquo, di fronte a te, qualcuno davanti, che sposta, appena, le gambe allungate di lato, per farti spazio.
E allora, le cosce, fasciate entrambe dai jeans, si toccano.
E rimangono così, mentre il calore si fa, pian piano, strada attraverso la stoffa.
Gli ondeggiamenti del treno suggeriscono spostamenti, ma le posizioni rimangono quelle, e, se, minimamente, cambiano, è solo per 'accomodare' la percezione dell'altro, per portare avanti un dialogo fatto di leggeri strofinii, di tocchi impercettibili, di movimenti negati.
Lo spazio, allargatosi per il cambio casuale dei compagni di viaggio, non modifica la situazione, e ti ritrovi a pensare che, in un'altra occasione, non lo avresti degnato di uno sguardo più che fugace, e adesso, invece, ti ritrovi a scendere una fermata dopo, ad allungare il giro, per non perdere quel contatto.
Anche se non ti interessa chi è, cosa fa, dove va.
Quando non puoi più fare diversamente, però, ti alzi, e, senza degnarlo di uno sguardo, scendi.


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